Mi irriti, Cortázar. C'è poco da fare, mi irriti. Mi irriti perché hai l'idea fissa che il mondo sarebbe migliore se popolato da scemi, ossia da eterni bambini che mettono cravatte a forma di ippopotamo o scarpe di colore diverso, che poi sarebbero artisti, alla fine. Mi irriti con questa idea di artisti che devono essere dei disadattati capaci di inventare, come Archimede Pitagorico. Mi irriti: per me l'artista ideale, che poi non si chiamerebbe artista nemmeno nel peggiore dei mondi, tanto l'hai contaminato, non da solo, con questa idea che debba essere un disadattato cronico capace di inventare gag, dovrebbe essere un burocrate timoroso e lavoratore: onesto, puntuale, buon debitore, uno che paga i conti del pizzicarolo in tempo, uno che ha un lavoro, appunto. Ecco, perché vorrei che un artista, anzi, chiamiamolo un coso, ecco, vorrei che un coso fosse come me, in quanto così anche io sarei un coso, anzi: non sarei un coso ma avrei tratti in comune con un coso e un giorno non dovrei cambiare abitudini per diventare un coso. Oltretutto io non vorrei mai diventare un coso: vorrei restare un allegro argomentatore rompicoglioni, uno affidabile, uno che non è mai stato inseguito dal pizzicarolo (non so perché, i cosi forse ce l'avranno coi pizzicaroli, che mi accanisco anche io con loro?). E soprattutto, fossi un coso che suona, invece di un coso che compone, anzi, di un compositore, non di un coso, non farei mai bis, non strizzerei l'occhiolino al pubblico, sarei un coso competente, equilibrato. Mi irriti perché non solo, Cortázar, io non sono un coso disadattato, ma addirittura non sono un coso adattato. Mi irriti perché mio padre non sapendo che regalarmi fin dalla più tenera infanzia mi ha regalato, Cortázar, i tuoi libri, che andavano di moda negli anni Sessanta, prima che io nascessi già sapeva che mi avrebbe regalato, dieci anni dopo, i tuoi libri, Cortázar, e mio padre si è fermato agli anni Sessanta: è un coso degli anni Sessanta, che ha dei cosi le tue stesse idee, Cortázar, fanciulli incapaci scagliati in un mondo da contemplare a occhi aperti per la meraviglia, Cortázar. E invece il mondo è monotono, destinato a perire, e popolato da pochissimi cosi degni di questo nome, e da tanti disadattati che si credono cosi, anche per colpa tua, che mi irriti. E mio padre, che ciononpertanto è un coso, continuerà a pensare che sei un prodotto di nicchia che si può regalare impunemente, e il giorno che morirà i tuoi eredi subiranno un piccolo tracollo, Cortázar, e mi dispiacerebbe, perché io ho tutti i tuoi libri regalati da mio padre, che addirittura mi piacevano quando ero piccolo, quando anche io pensavo a quindici anni che potevo essere un coso disadattato, e invece ero disadattato ma nel senso opposto del disadattamento del fanciullino, bensì nel senso del burocrate in pectore che è entrato in ufficio troppo prima dei suoi colleghi, figuriamoci dei disadattati veri. Bisogna che regoliamo i conti, Cortázar, tu mi irriti, con il tuo jazz, il tuo dadaismo, e le tue infinite reminiscenze letterarie, metafore, sinestesie. L'esattezza, altro che questo magone argentino che mio padre ha in comune con te e che ha adottato per moda, probabilmente, se non fosse che allo stesso tempo tutti gli argentini lo adottavano per moda e dunque tutti sono stati irritanti. In realtà tu sei stato un coso, ma sistematizzare i cosi è meglio evitare: perché per ogni Lautréamont c'è un Italo Svevo, perché poi stamattina sentivo un burocrate parlare della nostra Sala degli affreschi, con la loggia chiusa decorata a grottesche e l'affresco al centro con la Regina di Saba, e mentre parlava dell'esattezza della linea tanto esile che quasi ambisce a non esserlo, a negarsi, e delle figure tridimensionali che però si muovono dove non c'è uno sfondo, del manierismo, della perdita di unità a favore della molteplicità, io ho cominciato ad apprezzare per la prima volta dopo tre anni quella stanza, quelle grottesche, e la Regina di Saba sembrava che con quelle grottesche, quelle tigri, quei festoni, avesse aperto il sacco dei doni per Salomone, ma fuori del quadro: così da far intuire a Salomone un mondo di fiere, di meraviglie orientali, dove il caos e la saggezza possono darsi una mano, dove la ricchezza è multiforme, dove c'è sempre qualcosa più a sud e più a est: e questo grazie a uno che voleva fare il coso, come violoncellista, poi come architetto, e adesso fa le visite guidate ai babbioni in modo puntuale, preciso, arrivando in anticipo, rispettando i tempi. Mi irriti, Cortázar, però mi fai riflettere. E questo, in un mondo di cosi che ti fanno perdere le serate a ascoltarli invece che a riflettere, non è poco pregio: fa di te, quasi, a dire il vero, un coso affidabile cui mandare un messaggio.
martedì 9 ottobre 2012
domenica 7 ottobre 2012
ce se va co la freggna che ve scanni
Venerdì il bancomat si smagnetizza. Poi la metropolitana si guasta: la linea, dicono, tra Termini e Anagnina. Rimango bloccato a Flaminio per venti minuti. Per prendere il treno corro e salgo scale sgominando caviglie e turisti troppo lenti sulla strada, salendovi in quattro minuti netti. Sabato un ristorante di pesce alle pendici delle Prealpi tenta di avvelenarci con un cartoccio di domopak a forma di cigno pieno di cozze e vongole da cui sprigiona un odore di ammoniaca e marcio. Domenica la linea ferroviaria si rompe a Gallese: veniamo deviati, anzi, lo siamo tuttora, sulla linea secondaria, che suppongo sia la Civita Castellana-piazzale Flaminio. Il bar finisce i panini e i tramezzini, cui non par vero trovare acquirenti. L'immagine è quella di una civiltà in declino. Ma non per eccesso di modernità, di sibaritismo, di psicanalisi, non per una guerra nucleare: la civiltà sembra - ed è - in declino perché ha fatto il passo più lungo della gamba: frutti di mare a Orzinuovi, treni a trecento chilometri all'ora, metropolitane che convogliano centocinquantamila persone. Poi basta un dettaglio e tutto va a gambe all'aria. Ed è in questo mondo di imperfezioni che io cerco di portare un desiderio di puntuale efficienza, non riuscendovi. Nevrosi che, insieme ad altre, confesso a Serena sul divano dove sediamo insieme. Non voglio figli, le dico, come altre volte: ma questa volta tra singhiozzi, gemebondo: non voglio mettere al mondo degli infelici, non voglio essere responsabile della loro morte, che avverrà, e sarà atroce, come la mia, la tua, quella delle persone a me care, declino e morte che già vivo ogni giorno, svegliandomi tra gli incubi: talora un cancro alla pelle, una casa porosa alle intemperie, una marcia di dodici chilometri fino a Tuscania. Per questo, le dico, non voglio figli. E siccome mio padre due matrimoni ha mandato in fumo, non voglio sposarti, perché non voglio giurare fedeltà e assistenza se poi, come potrebbe essere, tutto questo si rivelasse un dì flatus vocis: io sono una persona esatta, io, e non voglio le approssimazioni. Per questo Serena, che mi ama, sebbene neghi che sia il passo d'addio, la fine del nostro rapporto, comunque vuol prendersi una pausa. Ironia: un tempo la sola menzione di una pausa mi avrebbe fatto fuggire, tentare strategie per rendermi inattaccabile, o-la-va-o-la-spacca: mai farsi logorare, sempre avere il coltello dalla parte del manico. Ma stavolta la posta è elevata. Si tratta di decidere se voglio essere come sono, o diventare un altro. Un buon padre di famiglia; un uomo che non tradisce; un marito; e trasferirmi in una operosa città del nord, che non è Poggio Mirteto, dove il treno ferma in un anelito di Sabina prima di arrivare in grembo al Tevere, se mai ci arriverà. Serena capisce: lei pure dovrebbe rinunciare a tutto per diventare un'altra persona. E in queste metamorfosi che non possono compiersi sta il nostro stallo amoroso. Invita invitum dimisit, come Tito e Berenice ma al contrario esatto. Nel frattempo mando messaggi a quattro donne diverse, così, per seguire il vecchio consiglio dello zio di Stendhal al nipote: «dans vingt-quatre heures que l'on vous a quitté, faites une déclaration, fût-ce même à une femme de chambre». Dispositivi elettronici in panne continua, relitti e lacerti di zone residenziali attorno a Roma, coincidenze che vengono perdute, appetitose studentesse fuori sede che ripassano gli appunti giocherellando col cellulare che non prende. Il cosiddetto nodo di Termini ancora inganna i viaggiatori incanalandoli in scale mobili senza senso. Il turbine del ventunesimo secolo è appena cominciato e, c'è da giurarci, manterrà tutte le sue promesse.
giovedì 4 ottobre 2012
Lograte le scarpe e li stivali
Il mio omonimo non è cambiato molto, in questi anni. Mi saluta appena, e io so che mi odia. Per lui sono il figlio di papà raccomandato, il che, per chi mi conosce e soprattutto conosce il papà del figlio, pare inverosimile. Invece lentamente mi sta convincendo. All'ammissione di direzione gli finii davanti. All'ammissione di composizione idem. Adesso scrivo un'opera per l'istituzione dove lavoro: mi sono venduto per un'opera invece del piatto di lenticchie? Lui non sa che gli do ragione. Ha un che di leporino, di somigliante al professore di filosofia calabrese che proprio oggi ri-immaginavo mentre pronunciava «Giag» il nome «Jacques». Lui non sa che quest'opera non mi darà alcuna gioia, o meglio, sì, ma come tutte le cose definitive, in cui non ci si può che riconoscere, e portarle al massimo impegno, darà fastidi, mi farà venire le squame, o non so che male. O forse lo sa. Guardo con attenzione il palazzo dei Pupazzi, lercio di smog, ma meraviglioso esempio di quell'arte tardocinquecentesca che ogni tanto ti viene incontro senza invasività, con gusto del dettaglio allucinato. A via Giulia si susseguono divieti di fermata e rimozione forzatissima, con l'effetto di una fila ininterrotta di macchine in sosta da piazza dell'Oro a ponte Sisto. Mi chiedo oziosamente che cosa sarebbe successo se ci fosse stato il solo divieto di sosta: probabilmente avrebbero parcheggiato torpedoni, bighe, carri allegorici, gru, betoniere, l'Enterprise e un Tupolev. Un gabbiano troneggia sopra Metastasio, che lo ignora. Guardo, un occhio torto a vedere se passa il novecentosedici, la facciata dei Filippini. Un grillo in mezzo al casino primordiale di corso Vittorio, sopra la fontana della Terrina. La facciata dei Filippini è storta. E questo lo sapevamo. Ma io insisto: no, è proprio storto, nel senso che il timpano mistilineo - ecco, ecco qual è il segreto - sembra più corto in una delle due metà. Cioè, è storto. Sì, ma lo sapevamo, rispondono gli architetti ancora una volta. Fottetevi, dico io, fatemi fare il turista. Piazza Sforza Cesarini stranamente tranquilla, pulita, in attesa del panico che coglierà questa arteria risorgimentale domani mattina. Eppure familiare: metro per metro e fermata per fermata, comodo accesso a tutta la mia vita, un po' mistilinea anch'essa. Mi vengono anche delle idee. Sono abbronzato; e si vede. La mattina al Terzo cancello, tra residui di marocchini con ombrelli, bresciali (idest bracciali) e oggetti non meglio identificabili. Proprio mentre Alessandra mi chiamava e dovevo andarmene arrivano due tedesche, una mora e una bionda, proprio come nei film scollacciati. Dico ad Alessandra: mi hai tolto il piacere del rimorchio gratuito, uno degli ultimi che restano alla vita moderna. Siamo amici, possiamo dirci tutto. Lei sorride con la sua dentatura un po' irregolare. La sera si sfilaccia in bioccoli che si addensano, presagio di chissà che umidità che sconteremo tutta a novembre. Ma adesso è quel simulacro d'estate che amavo tanto, e amo: raccolgono telline, si bagnano, passeggiano a mezza coscia nell'acqua come se domani fosse luglio. L'umanità, inguaribile, assolata, ottimista.
mercoledì 3 ottobre 2012
Alla sanfansò
«Hanno tutto! hanno tutto!», mi dico entusiasta vagando per il negozio dei Cinesi: hanno tutto!, entro dicendomi: pompa per la bicicletta? certo! micromine 2b da 0.5? come no! e... (pausa) pennelli? faccio gesti ampi per descrivere il pennello. Così piccolo? no, più grande. Pausa e... certo! sotto. Hanno tutto! e scendo le scale trovando tutto. Oggi è una di quelle giornate alla rinfusa, alla va-comme-vient, come un negozio di Cinesi. C'è tutto. C'è il mio amico e compagno di studi che deve dirigere la mia modesta opera appena reduce da un'operazione al cranio. Entra con un cappellino da baseball, con - effettivamente - la cucitura che fa sembrare la capoccia una palla da baseball. Trema ancora un po' alle giunture, esita. C'è il pianista-musicologo che fa male entrambe le cose: accompagnato da una virago tedesca piorroica di cui non sappiamo lo status, uccide il residuo dell'accordatura dello Steinway mentre sul suo dispositivo portatile possiamo leggere la partitura. Finisce il primo pezzo, io non so come passare al secondo, e così tocco a caso lo schermo. Ed ecco improvvisamente apparire una galleria di video intitolati «femdom hardcore»... e più non leggo innanzi, mentre suona Balakirev, cercando di tornare frettolosamente indietro prima che qualcuno se ne accorga: c'è di tutto! anche il materiale da pippe della pippa (inteso come pippa lui, il pianista, e come pippe quelle che gli evitano commercio carnale con la virago). C'è di tutto! la Biblioteca nazionale che chiude, l'opera che doveva andare in scena che non va più in scena: e l'agente canadese che vuole organizzare una giornata canadese in cui troverebbero posto sette concerti in un pomeriggio, un buffet con aragoste vive, salmone, musica tradizionale meticcia, conferenze via skype col primo ministro, installazioni e video, film: di tutto, compreso il fatto che non riesco a farle capire che sappiamo perfettamente che il Canada è in America, che non siamo di quelli che pensano all'America quando parliamo degli Stati Uniti (d'America), che, insomma, avendola scoperta, l'America, sappiamo qualcosa dell'America. Cristofero Colombo cià er busto ar Pincio, parafraserebbe Pascarella, e dunque era italiano. C'è di tutto, dunque: la voglia di finire lavori terminati con una solenne sessione in cui dall'alluce all'ombelico ai capezzoli alle spalle al lobo e giù al bordo del seno al fianco all'inguine e su e giù e su non ci sia centimetro non mordibile, spalmabile, leccabile: di tutto.
Dopodiché entra un signore con un cartoncino bristol azzurro, che presenta, oscillando per l'età già avanzata, alla cassiera.
«Ne avete un cartoncino così?»
«No.»
Neanche una pausa. Medito, scornato. Non c'è tutto, non è mai troppo tutto.
martedì 2 ottobre 2012
io, e l'asino mio
Indice delle cose notevoli: assoluta intercambiabilità di Tajani e di Frattini, il che però a ben pensarci non è una cosa notevole; mancanza di sorpresa per il fatto che i burini vadano a vivere ai Parioli; fastidio per chi dice: tanto ce la farai. Sì, intanto sono io a farmi il culo, così so' bravi tutti; totale incomprensione verso: l'olio a crudo, gli spaghettini e le linguine diafane che mia madre si ostina a comprare; fantasia illimitata dello spam:
«Grazie per la vostra posta ho il benvenuto ok così io sono interessato a
sapere che molto bene, quindi io come voi di contattarmi attraverso il
mio indirizzo email (....@yahoo.com) in modo che si possa
parlare pastella e si conoscono molto bene ok io sono in attesa di
sentire da voi presto ok grazie e Dio vi benedica.
tuo amico
Benedizione.»
tuo amico
Benedizione.»
Il fatto che si tratti della cosa migliore della giornata la dice lunga sulla medesima.
E sapere come si dice «pastella» in Inglese mi farà apprezzare meglio fish & chips.
domenica 30 settembre 2012
...e bbonasera
Neanche un po' di pathos, di lacrimucce: niente. Vado via dalla casa più invidiata del mondo come un ladro, nemmeno nella notte, acciuffando oggetti alla rinfusa e mettendoli in bustone. Fiale per capelli (eppure di capelli ne ho tanti), auricolari che non si sa se funzionino, la guida del lazio, deodoranti, un programma di sala, il corridoio silenzioso, gomitoli di polvere, le voci della scema e del fidanzato (sorprendentemente bello, devo dire) attutite dietro la porta della camera. Mi sorprendo a pensare a Bersani: lo vedo talmente privo di carisma che quasi quasi lo voterei, ultimamente è in discesa libera, antiretorico, sbaglia i tempi della climax ogni volta che prova a suscitare entusiasmi. Che tenero, Bersani, mi dico mentre urto le pareti dell'ascensore laccato di rosso che anch'esso ha subito i miei assalti erotici; e così i divanetti (chissà che fine ha fatto l'americano-greca, o Priscilla... e poi penso a Sabrina, sul divano, la prima volta: ricordo doloroso, Sabrina, che mi odia solo perché, dopo averci fatto l'amore, mi ero accorto che tra noi non funzionava proprio lì: e che fare, che dirle? Sabrina, ti è andata bene: dai retta). Così, con simile antiretorica, discendo e non saluto Antonio, che tanto dopo le cinque è già ubriaco e non riconoscerebbe nemmeno la sua amata Peroni, oppure il semi-barbone che faceva Sgarbi quotidiani e che gongola quando gli chiedono della sua prossima comparsata in tv. L'autunno mi si rovescia addosso come un guanto slabbrato: piove, i bengalesi che non vedrò più così spesso mi assaltano offrendomi ombrelli che non prenderò. Ho sottovalutato l'assenza di quei mobili, di quelle campane, del cannone del Gianicolo? Minchiate, borbotto mentre disfo un paio di malleoli turistici con il raccoglitore delle bozze rossiniane che fa protuberanza. Vivo la giornata in una sorta di tensione sessuale latente che, mi illudo, visto che non potrò scaricarla per tutta la settimana, costretto in casa di mia madre e con il pisello scorticato dall'ultima violenta mischia con la bionda letterata, mi aiuterà a scrivere brandelli dell'opera che, in realtà, non voglio scrivere fino in fondo. Ma è un'altra tensione: invitus invitam scribebo. Il mio intervento a casa di mia madre fa sì che lei non possa più vedere La7 in salotto, il che causa sulle mie innocenti spalle una sequela di geremiadi: oh lei tapina. Ma so che sono ill-fated con la tecnologia, anche quella elementare che dipende da Monte Cavo o Monte Mario, lì, all'orizzonte. Ritorno alla mia cameretta, che è per inciso il doppio della camera che lascio. Sono disperso, senz'ancora. Autunno, inutile autunno, non ti do ancora vincente; al massimo, piazzato.
giovedì 27 settembre 2012
E dde san Pietro e dde piazza-de-Spaggna
La ragazza è in carne, bionda, gli occhi nocciola spalancati, bel naso e bocca magnifica con broncio naturale. Mi guarda come se volesse divorarmi. Ricambio col medesimo sguardo. Segue colluttazione, mischia, scopata: quando mi dice «posso sedermi», timidamente in modo da far ribollire il sangue, intende proprio che vuole sedersi lì. Lo fa. Mi ricordo questo come altri episodi del passato avvenuti in questa camera angusta e antica, in questo letto ikea tra mobili d'antiquariato e persiane che si sfaldano, infissi rinforzati con strisce di gomma e spugna. Naturalmente il più importante è quando, tra le tante, una è tornata e ha visto questa camera come se fosse, almeno per quel momento, camera sua. Ma sono gli altri momenti, transeunti, che mi si presentano alla mente Ho appena pagato l'ultima volta l'affitto. La scema cerca di cantare Imagine accompagnandosi a una specie di ukulele. Il pazzo apre la porta della sua camera come se dovesse mitragliare qualcuno. È tempo di andarsene, da questa casa con vista sul Pincio, diroccata, fredda, ma bellissima: col suo terrazzo e il pesce rosso cui ho dato un nome, unico superstite della sua nidiata, acquattato nella vasca al riparo dai gabbiani. Sposto scatoloni che paiono aggiungere pesantezza alla pesantezza. Loro, le donne, e loro, i libri: le prime preoccupazioni di una vita. Un continuo vagheggiare soddisfazioni sempre nuove della mentula e della mens, di cui l'altra è un vero accrescitivo, che poi quando arrivano sembrano, come sempre, diminutive. Mi sento, in fondo, quasi cacciato dalla cialtroneria dei miei coinquilini, ma la verità è che dopo qualche anno io mi infastidisco, smanio, trovo di aver dedicato troppe energie e di non esserne stato rimeritato - così al lavoro, perché dopo tre anni a cercare di mettere ordine nei refusi si capisce che tanto ordine è stato inutile, disatteso, antipatico - così nelle case. È stato bello pensare che si potesse tornare a vivere in centro: trotterellando e tacchettando sui sampietrini al ritorno dai concerti, la sera, in giacca e cravatta, e il giorno, in bici, a un tiro di schioppo da tutti i posti di lavoro della Capitale, o di corsa, a venti minuti dallo Stadio delle Terme, otto da Villa Borghese. La verità è che in questa porzione di centro storico la dittatura di shopping e vecchi parvenu incattiviti, matti che hanno avuto un quarto d'ora di celebrità, portinai romani dediti allo scarico delle responsabilità che non hanno, minicar scagliate verso le pendici del San Giuseppe de Merode, e doppie file, ed NCC assiepati dietro l'Hotel de Russie, e vigili conniventi e antiquari senza antiquariato, ristoranti napoletani con musica di sottofondo, e donne gonfie alle labbra e agli zigomi come dei jolly - rende il tutto artificioso, sopportabile solo a patto di un isolamento continuo. Ma fascinoso, ovvio. Non ho risolto i miei problemi, qui dentro. Sono solo meno ossessionato dalla penuria di quando sono entrato. Non è poco. Avrei voluto un altro addio che non questo tempo da colera, questi miasmi che vengono dalla cucina dove oramai sono despoti il pazzo e la scema, tanto che mi pare di fare la fine di Aschenbach. La scema mi guarda sudato mentre sposto scatole oltre le mie forze: mi ero sottovalutato. Parlotta e si sopravvaluta, come sempre. Un ultimo sguardo e un saluto. Difficile rinunciare alle cose di cui, almeno un tempo, si è avuto cura: perché in fondo era il contrario, e ci si sentirà senza difesa fino alla prossima affezione, al prossimo turbinio di oggetti.
martedì 25 settembre 2012
fori er verde
«Paolo! Che ci fai qui?» «Sono venuto a trovare mio padre in casa di cura. Alzheimer. Spero che tu non abbia mai quest'esperienza [faccio scongiuri sul freno di sinistra]. Io mi sono ammalato. Devo rifare le analisi, ma non sto bene.» Racconto che stona nel viso incorniciato da fittissimi capelli rossi, da una camicia a fiorami, da una erre non arrotata, da me in pantaloni corti, una pizzetta ingrata nel tascapane, l'aria provata. Laudato sii per i racconti che ascolto ogni giorno. Laudato sii per la fine dell'estate, che attendo con un senso di
fatalità incombente, con la voglia di divorarne ogni acino, ogni regalo
di mezze giornate, ogni ultimo bagno sempre rimandato: finché, un
giorno, non ci sarà più tempo per la ripresa del bel tempo dopo la prima
perturbazione atlantica, niente più scirocco se non astioso e
piovigginoso. Laudato sii per sora nostra scampagnata, che mi porta a rubare il tempo che non ho, a caricare la bicicletta sul treno, a sferragliare per lo sterrato. E laudato sii anche per nostro fratello lago, scavato all'interno di un vulcano, isolato nella campagna, silenzioso, in cui nuoto da solo dopo averne scalato la pendice. Appena arrivato, deposta la bicicletta, vado per spogliarmi. E finalmente, non essendoci nessuno, tra gli alberi odorosi, spero di spogliarmi senza armeggiare con l'asciugamano per mettermi il costume. Improvvisamente: «aaaalt!». Mi giro, e alle mie spalle si materializzano venti-venticinque soldati. Si fermano. Si girano verso il lago. Sono tutti armati. Una scena surreale. Per un attimo penso: ora mi sparano. Prendono la mira e mi crivellano di colpi. Si siedono, poi, scambiandosi poche e rade bestemmie in vari dialetti, chi mette il cane e chi il porco, chi prima, chi dopo. La mia donna sentendomi al telefono dice: e farebbero bene a spararti. Io però sono lì, ribatto, per lavorare: sono le apparenze che mi condannano. Ho un'opera da scrivere, eh!, e in effetti mi ci metto. Un'ora, e risolvo già qualche problema di struttura. Basta e avanza. Nuoto dunque energicamente nell'acqua fredda, i soldati sono andati via, il vento muta direzione e spazza via tutta la nuvolaglia: i 737 in virata fanno ombra sul lago, un tremolio di grigio-celeste, armenti. Nulla di male mi può venire da qui, mi dico: è il mio posto-simbolo, non troppo remoto, non sempre affollato, ma con la civiltà a conveniente tiro. E poi igienico, lavacro ideale, una volta superata la chiostra di alghe affioranti a pochi metri dalla riva. E per nostra sorella boccia, approdo sicuro nel corpo misterioso delle nostre sorelle femmine. E per i piedi smaltati sopra le spalle, o che premono sui fianchi. Laudato sii anche per nostro fratello Tirreno, con le sue alghe inesauribilmente mosse, torbido al maestrale. E per i forti costruiti alla periferia di Roma, e ora inglobati nella città, costringendo le strade a lunghe inesplicabili volute; e per tutte le periferie, che si nettano pian piano della loro estraneità, che si regolarizzano. Suono al nuovo indirizzo dei miei futuri padroni di casa. Una signora dalla penombra dell'andito mi apostrofa: «Che è Stefano, quello con il cane?». Domanda bizzarra: perché è lei ad avere il cane. «Ah, lei non vive qui. Ora vedo. Però da lontano un po' v'assomijjate. L'avevo presa per Stefano.» «Signora, spero sia un complimento per me e per Stefano.» «Ma te sei proprio bello», mi dice. L'abbronzatura di stamattina fa conquiste, penso. Laudato sii per la melanina, e per il crepuscolo che indora la targa della Guardia di Finanza, lì, sul Forte Aurelio.
lunedì 24 settembre 2012
Tritticanno la testa sur cuscino
La moglie di Sasà ha lo sguardo assente, il sorriso mezzo completato, mezzo no. La sua bellezza mi colpisce con un certo dolore: non posso fare a meno di guardarla. Arrotondata di quell'arrotondamento che può essere anche solo un gradevole laisser-aller del matrimonio. Il marito vaga per il cimitero. Non posso fare a meno di guardarla, labbra pronunciate, sguardo deciso (ma assente), per cogliere una sua occhiata di sfuggita, o di ritorno dall'orizzonte, lì, lì, dietro al muretto basso dove c'è uno dei panorami che hanno valso al pianeta una certa (e per molti versi immeritata) buona stampa, i monti della Sicilia si accavallano, monumenti e alberghi, a vertigine, il cimitero costruito in fondo a una valle come se tale dissipazione di bellezza fosse - ed è - inutile per gli occupanti. Sudo nel mio frescolana, Sasà, che non vedevo da vent'anni, e anche allora per una volta, no. Non capisco la mia attrazione per sua moglie, e meno la capisco più la squadro. Fino a quando dovrò scontare i miei dodici anni, bulimicamente cercando approvazione (e pompini, se possibile, ma non in questo stesso ordine) dalle donne, non mi è dato saperlo. Schiumano i beccamorti della ditta Maiorana. La prima volta che vedo una sepoltura così da vicino. La bara deve scendere molto a fondo: poi viene coperta da mattoni, poi i mattoni dal cemento. Confesso di non sapere perché. A San Nicola di Tremiti le ossa biancheggiano, le tombe sono diroccate, i morti a fil di terra, come se avessero paura di seppellirli troppo vicini al mare in perpetua ebollizione: preferendo il petulante gozzovigliare dei gabbiani. Qui no. Oscilla la bara e incoccia nelle pareti. Le corde si tendono, guizzano i muscoli degli addetti, che si scambiano poche, professionali, istruzioni in dialetto, il più anziano verso i più giovani, in piramide inversa: dai più vicini alla tomba a quelli che, nella tomba, calano per sistemarla. Il corteo ha attraversato tutto il paese, un lungo corso da città turistica dove negozi e trattorie e qualche palazzo storico in pietra friabilizzata dal sole si alternano. Molti negozi hanno chiuso in segno di rispetto. I titolari occhieggiano, si segnano. Mia madre e io siamo pur senza esserlo come parenti, e procediamo nelle primissime file di questo corteo disarmonico, che si accorcia, si sfilaccia, per qualche saluto che disperde momentaneamente i partecipanti (capita anche a noi) poi richiamati dalla marcia lenta e infine in volute verso la destinazione. Ora che ci penso, ho sempre detestato questo paese. La defunta porta con sé la giovinezza di mia madre, i suoi venticinque anni che mia madre racconterà poi nei giorni successivi al marito di lei, ai due figli, come se mezzo secolo avesse solo reso più minuziosi tutti i ricordi, la ricerca del nome, delle sue caratteristiche: e mentre io a un certo punto mi impazientisco del suo parlare e parlare e parlare, dei suoi aneddoti, loro la ascoltano e alla fine, mi diranno, quanto è stato utile averla qui. Quando ci venivo anche io, negli anni Ottanta (da allora non rimettendoci piede per quasi un quarto di secolo), avevo dodici anni - è come se avessi avuto dodici anni per un decennio o poco meno - ed ero infelice. Per l'amico di Sasà, e figlio della morta, avevo amicizia mista a curiosità sessuale, mentre amavo la mia compagna di banco: poi qualcosa nella mia vita andò per il verso che portava alla mia compagna di banco, che non mi calcolava anche perché era più alta di me di un palmo, e dunque a me che guardo, pur se fidanzato con un'altra, la moglie di Sasà. Sono felice, ora? Non sarò mai felice, mi dirò. Me lo ripeterò in treno, la notte, dondolando e dormendo durante la traversata della Calabria, ascoltando a mia volta mia madre e dicendo poche, rare, parole. Pensando, per addormentarmi, all'opera che devo scrivere e che al momento mi aiuta solo ad addormentarmi quando ne medito la struttura. Rapida mano di calce, prima che il sonno mi accolga e mi porti fino a Salerno. Da desto, non mi vengono in mente aneddoti: ora sì: una bambina di nome Aurélie e la sua amica svizzera, entrambe innamorate di me; le mosche sulla spiaggia di Granitola; l'attesa che passassero le tre ore dal pasto per poter fare il bagno; i panini e la coca cola; l'ascesa al Teatro greco; e tutte le fidanzate, le donne: cinquanta e oltre: quanto ancora dovrò avere dodici anni, mi dico. Mi addormento di nuovo. Da anni, prima del sonno, mi prende una frenesia, un'ansia che mi fa cercare, rovistando, trovandone nuovi, altri sguardi, altre pance coperte dal mio seme, altri volti deformati dal piacere, poche promesse, tante voci però da ascoltare. Anche adesso, nell'ineguale ansimare del treno in cui tutti dormono, anche il cuccettista slavato nel suo compito pervicacemente anacronistico, mi pongo in ascolto. All'indomani proverò a imitare tutte le voci che ho sentito: la madre di tre figli che ne ha perso uno (rimanendo con un consigliere provinciale dell'UdC e con un altro quasi disabile, che quando avevo dodici anni quasi mi spezzò la schiena sott'acqua); l'altra figlia della morta, che chiede «come si supera?», torcendosi le mani nel senso di colpa. Mia madre, nella cuccetta di sotto, dorme. E io? Dirò anche io così? Sarò in Spagna, Giappone, scamperò alla sua vecchiaia, al senso di colpa? Apriamo gli scuri: affianchiamo gli archi dell'acquedotto. Il tempio di Minerva medica, che poi non è quello, ci accoglie. Scendiamo.
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