La moglie di Sasà ha lo sguardo assente, il sorriso mezzo completato, mezzo no. La sua bellezza mi colpisce con un certo dolore: non posso fare a meno di guardarla. Arrotondata di quell'arrotondamento che può essere anche solo un gradevole laisser-aller del matrimonio. Il marito vaga per il cimitero. Non posso fare a meno di guardarla, labbra pronunciate, sguardo deciso (ma assente), per cogliere una sua occhiata di sfuggita, o di ritorno dall'orizzonte, lì, lì, dietro al muretto basso dove c'è uno dei panorami che hanno valso al pianeta una certa (e per molti versi immeritata) buona stampa, i monti della Sicilia si accavallano, monumenti e alberghi, a vertigine, il cimitero costruito in fondo a una valle come se tale dissipazione di bellezza fosse - ed è - inutile per gli occupanti. Sudo nel mio frescolana, Sasà, che non vedevo da vent'anni, e anche allora per una volta, no. Non capisco la mia attrazione per sua moglie, e meno la capisco più la squadro. Fino a quando dovrò scontare i miei dodici anni, bulimicamente cercando approvazione (e pompini, se possibile, ma non in questo stesso ordine) dalle donne, non mi è dato saperlo. Schiumano i beccamorti della ditta Maiorana. La prima volta che vedo una sepoltura così da vicino. La bara deve scendere molto a fondo: poi viene coperta da mattoni, poi i mattoni dal cemento. Confesso di non sapere perché. A San Nicola di Tremiti le ossa biancheggiano, le tombe sono diroccate, i morti a fil di terra, come se avessero paura di seppellirli troppo vicini al mare in perpetua ebollizione: preferendo il petulante gozzovigliare dei gabbiani. Qui no. Oscilla la bara e incoccia nelle pareti. Le corde si tendono, guizzano i muscoli degli addetti, che si scambiano poche, professionali, istruzioni in dialetto, il più anziano verso i più giovani, in piramide inversa: dai più vicini alla tomba a quelli che, nella tomba, calano per sistemarla. Il corteo ha attraversato tutto il paese, un lungo corso da città turistica dove negozi e trattorie e qualche palazzo storico in pietra friabilizzata dal sole si alternano. Molti negozi hanno chiuso in segno di rispetto. I titolari occhieggiano, si segnano. Mia madre e io siamo pur senza esserlo come parenti, e procediamo nelle primissime file di questo corteo disarmonico, che si accorcia, si sfilaccia, per qualche saluto che disperde momentaneamente i partecipanti (capita anche a noi) poi richiamati dalla marcia lenta e infine in volute verso la destinazione. Ora che ci penso, ho sempre detestato questo paese. La defunta porta con sé la giovinezza di mia madre, i suoi venticinque anni che mia madre racconterà poi nei giorni successivi al marito di lei, ai due figli, come se mezzo secolo avesse solo reso più minuziosi tutti i ricordi, la ricerca del nome, delle sue caratteristiche: e mentre io a un certo punto mi impazientisco del suo parlare e parlare e parlare, dei suoi aneddoti, loro la ascoltano e alla fine, mi diranno, quanto è stato utile averla qui. Quando ci venivo anche io, negli anni Ottanta (da allora non rimettendoci piede per quasi un quarto di secolo), avevo dodici anni - è come se avessi avuto dodici anni per un decennio o poco meno - ed ero infelice. Per l'amico di Sasà, e figlio della morta, avevo amicizia mista a curiosità sessuale, mentre amavo la mia compagna di banco: poi qualcosa nella mia vita andò per il verso che portava alla mia compagna di banco, che non mi calcolava anche perché era più alta di me di un palmo, e dunque a me che guardo, pur se fidanzato con un'altra, la moglie di Sasà. Sono felice, ora? Non sarò mai felice, mi dirò. Me lo ripeterò in treno, la notte, dondolando e dormendo durante la traversata della Calabria, ascoltando a mia volta mia madre e dicendo poche, rare, parole. Pensando, per addormentarmi, all'opera che devo scrivere e che al momento mi aiuta solo ad addormentarmi quando ne medito la struttura. Rapida mano di calce, prima che il sonno mi accolga e mi porti fino a Salerno. Da desto, non mi vengono in mente aneddoti: ora sì: una bambina di nome Aurélie e la sua amica svizzera, entrambe innamorate di me; le mosche sulla spiaggia di Granitola; l'attesa che passassero le tre ore dal pasto per poter fare il bagno; i panini e la coca cola; l'ascesa al Teatro greco; e tutte le fidanzate, le donne: cinquanta e oltre: quanto ancora dovrò avere dodici anni, mi dico. Mi addormento di nuovo. Da anni, prima del sonno, mi prende una frenesia, un'ansia che mi fa cercare, rovistando, trovandone nuovi, altri sguardi, altre pance coperte dal mio seme, altri volti deformati dal piacere, poche promesse, tante voci però da ascoltare. Anche adesso, nell'ineguale ansimare del treno in cui tutti dormono, anche il cuccettista slavato nel suo compito pervicacemente anacronistico, mi pongo in ascolto. All'indomani proverò a imitare tutte le voci che ho sentito: la madre di tre figli che ne ha perso uno (rimanendo con un consigliere provinciale dell'UdC e con un altro quasi disabile, che quando avevo dodici anni quasi mi spezzò la schiena sott'acqua); l'altra figlia della morta, che chiede «come si supera?», torcendosi le mani nel senso di colpa. Mia madre, nella cuccetta di sotto, dorme. E io? Dirò anche io così? Sarò in Spagna, Giappone, scamperò alla sua vecchiaia, al senso di colpa? Apriamo gli scuri: affianchiamo gli archi dell'acquedotto. Il tempio di Minerva medica, che poi non è quello, ci accoglie. Scendiamo.
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