La ragazza è in carne, bionda, gli occhi nocciola spalancati, bel naso e bocca magnifica con broncio naturale. Mi guarda come se volesse divorarmi. Ricambio col medesimo sguardo. Segue colluttazione, mischia, scopata: quando mi dice «posso sedermi», timidamente in modo da far ribollire il sangue, intende proprio che vuole sedersi lì. Lo fa. Mi ricordo questo come altri episodi del passato avvenuti in questa camera angusta e antica, in questo letto ikea tra mobili d'antiquariato e persiane che si sfaldano, infissi rinforzati con strisce di gomma e spugna. Naturalmente il più importante è quando, tra le tante, una è tornata e ha visto questa camera come se fosse, almeno per quel momento, camera sua. Ma sono gli altri momenti, transeunti, che mi si presentano alla mente Ho appena pagato l'ultima volta l'affitto. La scema cerca di cantare Imagine accompagnandosi a una specie di ukulele. Il pazzo apre la porta della sua camera come se dovesse mitragliare qualcuno. È tempo di andarsene, da questa casa con vista sul Pincio, diroccata, fredda, ma bellissima: col suo terrazzo e il pesce rosso cui ho dato un nome, unico superstite della sua nidiata, acquattato nella vasca al riparo dai gabbiani. Sposto scatoloni che paiono aggiungere pesantezza alla pesantezza. Loro, le donne, e loro, i libri: le prime preoccupazioni di una vita. Un continuo vagheggiare soddisfazioni sempre nuove della mentula e della mens, di cui l'altra è un vero accrescitivo, che poi quando arrivano sembrano, come sempre, diminutive. Mi sento, in fondo, quasi cacciato dalla cialtroneria dei miei coinquilini, ma la verità è che dopo qualche anno io mi infastidisco, smanio, trovo di aver dedicato troppe energie e di non esserne stato rimeritato - così al lavoro, perché dopo tre anni a cercare di mettere ordine nei refusi si capisce che tanto ordine è stato inutile, disatteso, antipatico - così nelle case. È stato bello pensare che si potesse tornare a vivere in centro: trotterellando e tacchettando sui sampietrini al ritorno dai concerti, la sera, in giacca e cravatta, e il giorno, in bici, a un tiro di schioppo da tutti i posti di lavoro della Capitale, o di corsa, a venti minuti dallo Stadio delle Terme, otto da Villa Borghese. La verità è che in questa porzione di centro storico la dittatura di shopping e vecchi parvenu incattiviti, matti che hanno avuto un quarto d'ora di celebrità, portinai romani dediti allo scarico delle responsabilità che non hanno, minicar scagliate verso le pendici del San Giuseppe de Merode, e doppie file, ed NCC assiepati dietro l'Hotel de Russie, e vigili conniventi e antiquari senza antiquariato, ristoranti napoletani con musica di sottofondo, e donne gonfie alle labbra e agli zigomi come dei jolly - rende il tutto artificioso, sopportabile solo a patto di un isolamento continuo. Ma fascinoso, ovvio. Non ho risolto i miei problemi, qui dentro. Sono solo meno ossessionato dalla penuria di quando sono entrato. Non è poco. Avrei voluto un altro addio che non questo tempo da colera, questi miasmi che vengono dalla cucina dove oramai sono despoti il pazzo e la scema, tanto che mi pare di fare la fine di Aschenbach. La scema mi guarda sudato mentre sposto scatole oltre le mie forze: mi ero sottovalutato. Parlotta e si sopravvaluta, come sempre. Un ultimo sguardo e un saluto. Difficile rinunciare alle cose di cui, almeno un tempo, si è avuto cura: perché in fondo era il contrario, e ci si sentirà senza difesa fino alla prossima affezione, al prossimo turbinio di oggetti.
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