Il mio omonimo non è cambiato molto, in questi anni. Mi saluta appena, e io so che mi odia. Per lui sono il figlio di papà raccomandato, il che, per chi mi conosce e soprattutto conosce il papà del figlio, pare inverosimile. Invece lentamente mi sta convincendo. All'ammissione di direzione gli finii davanti. All'ammissione di composizione idem. Adesso scrivo un'opera per l'istituzione dove lavoro: mi sono venduto per un'opera invece del piatto di lenticchie? Lui non sa che gli do ragione. Ha un che di leporino, di somigliante al professore di filosofia calabrese che proprio oggi ri-immaginavo mentre pronunciava «Giag» il nome «Jacques». Lui non sa che quest'opera non mi darà alcuna gioia, o meglio, sì, ma come tutte le cose definitive, in cui non ci si può che riconoscere, e portarle al massimo impegno, darà fastidi, mi farà venire le squame, o non so che male. O forse lo sa. Guardo con attenzione il palazzo dei Pupazzi, lercio di smog, ma meraviglioso esempio di quell'arte tardocinquecentesca che ogni tanto ti viene incontro senza invasività, con gusto del dettaglio allucinato. A via Giulia si susseguono divieti di fermata e rimozione forzatissima, con l'effetto di una fila ininterrotta di macchine in sosta da piazza dell'Oro a ponte Sisto. Mi chiedo oziosamente che cosa sarebbe successo se ci fosse stato il solo divieto di sosta: probabilmente avrebbero parcheggiato torpedoni, bighe, carri allegorici, gru, betoniere, l'Enterprise e un Tupolev. Un gabbiano troneggia sopra Metastasio, che lo ignora. Guardo, un occhio torto a vedere se passa il novecentosedici, la facciata dei Filippini. Un grillo in mezzo al casino primordiale di corso Vittorio, sopra la fontana della Terrina. La facciata dei Filippini è storta. E questo lo sapevamo. Ma io insisto: no, è proprio storto, nel senso che il timpano mistilineo - ecco, ecco qual è il segreto - sembra più corto in una delle due metà. Cioè, è storto. Sì, ma lo sapevamo, rispondono gli architetti ancora una volta. Fottetevi, dico io, fatemi fare il turista. Piazza Sforza Cesarini stranamente tranquilla, pulita, in attesa del panico che coglierà questa arteria risorgimentale domani mattina. Eppure familiare: metro per metro e fermata per fermata, comodo accesso a tutta la mia vita, un po' mistilinea anch'essa. Mi vengono anche delle idee. Sono abbronzato; e si vede. La mattina al Terzo cancello, tra residui di marocchini con ombrelli, bresciali (idest bracciali) e oggetti non meglio identificabili. Proprio mentre Alessandra mi chiamava e dovevo andarmene arrivano due tedesche, una mora e una bionda, proprio come nei film scollacciati. Dico ad Alessandra: mi hai tolto il piacere del rimorchio gratuito, uno degli ultimi che restano alla vita moderna. Siamo amici, possiamo dirci tutto. Lei sorride con la sua dentatura un po' irregolare. La sera si sfilaccia in bioccoli che si addensano, presagio di chissà che umidità che sconteremo tutta a novembre. Ma adesso è quel simulacro d'estate che amavo tanto, e amo: raccolgono telline, si bagnano, passeggiano a mezza coscia nell'acqua come se domani fosse luglio. L'umanità, inguaribile, assolata, ottimista.
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