Venerdì il bancomat si smagnetizza. Poi la metropolitana si guasta: la linea, dicono, tra Termini e Anagnina. Rimango bloccato a Flaminio per venti minuti. Per prendere il treno corro e salgo scale sgominando caviglie e turisti troppo lenti sulla strada, salendovi in quattro minuti netti. Sabato un ristorante di pesce alle pendici delle Prealpi tenta di avvelenarci con un cartoccio di domopak a forma di cigno pieno di cozze e vongole da cui sprigiona un odore di ammoniaca e marcio. Domenica la linea ferroviaria si rompe a Gallese: veniamo deviati, anzi, lo siamo tuttora, sulla linea secondaria, che suppongo sia la Civita Castellana-piazzale Flaminio. Il bar finisce i panini e i tramezzini, cui non par vero trovare acquirenti. L'immagine è quella di una civiltà in declino. Ma non per eccesso di modernità, di sibaritismo, di psicanalisi, non per una guerra nucleare: la civiltà sembra - ed è - in declino perché ha fatto il passo più lungo della gamba: frutti di mare a Orzinuovi, treni a trecento chilometri all'ora, metropolitane che convogliano centocinquantamila persone. Poi basta un dettaglio e tutto va a gambe all'aria. Ed è in questo mondo di imperfezioni che io cerco di portare un desiderio di puntuale efficienza, non riuscendovi. Nevrosi che, insieme ad altre, confesso a Serena sul divano dove sediamo insieme. Non voglio figli, le dico, come altre volte: ma questa volta tra singhiozzi, gemebondo: non voglio mettere al mondo degli infelici, non voglio essere responsabile della loro morte, che avverrà, e sarà atroce, come la mia, la tua, quella delle persone a me care, declino e morte che già vivo ogni giorno, svegliandomi tra gli incubi: talora un cancro alla pelle, una casa porosa alle intemperie, una marcia di dodici chilometri fino a Tuscania. Per questo, le dico, non voglio figli. E siccome mio padre due matrimoni ha mandato in fumo, non voglio sposarti, perché non voglio giurare fedeltà e assistenza se poi, come potrebbe essere, tutto questo si rivelasse un dì flatus vocis: io sono una persona esatta, io, e non voglio le approssimazioni. Per questo Serena, che mi ama, sebbene neghi che sia il passo d'addio, la fine del nostro rapporto, comunque vuol prendersi una pausa. Ironia: un tempo la sola menzione di una pausa mi avrebbe fatto fuggire, tentare strategie per rendermi inattaccabile, o-la-va-o-la-spacca: mai farsi logorare, sempre avere il coltello dalla parte del manico. Ma stavolta la posta è elevata. Si tratta di decidere se voglio essere come sono, o diventare un altro. Un buon padre di famiglia; un uomo che non tradisce; un marito; e trasferirmi in una operosa città del nord, che non è Poggio Mirteto, dove il treno ferma in un anelito di Sabina prima di arrivare in grembo al Tevere, se mai ci arriverà. Serena capisce: lei pure dovrebbe rinunciare a tutto per diventare un'altra persona. E in queste metamorfosi che non possono compiersi sta il nostro stallo amoroso. Invita invitum dimisit, come Tito e Berenice ma al contrario esatto. Nel frattempo mando messaggi a quattro donne diverse, così, per seguire il vecchio consiglio dello zio di Stendhal al nipote: «dans vingt-quatre heures que l'on vous a quitté, faites une déclaration, fût-ce même à une femme de chambre». Dispositivi elettronici in panne continua, relitti e lacerti di zone residenziali attorno a Roma, coincidenze che vengono perdute, appetitose studentesse fuori sede che ripassano gli appunti giocherellando col cellulare che non prende. Il cosiddetto nodo di Termini ancora inganna i viaggiatori incanalandoli in scale mobili senza senso. Il turbine del ventunesimo secolo è appena cominciato e, c'è da giurarci, manterrà tutte le sue promesse.
il mio desiderio di maternità ce l ho da molto tempo dentro oramai.Ma non è per il discorso del mettere al mondo degli infelici. No! per me dovrebbero essere il frutto di un atto d amore tra uomo e donna. Ma amore vero non quello gne gne gne..
RispondiEliminaE io che pensavo che il frutto d'un atto d'amore tra uomo e donna fosse... no, va be', mi trattengo.
RispondiElimina