Il Secondo concerto di Brahms ha accompagnato tutti i momenti più importanti della mia vita, che è naturalmente molto meno importante del Secondo concerto di Brahms. Da venticinque anni, ogni tanto, mi capita di ascoltarlo quasi per caso, dopo che venticinque anni fa sceglievo di mettere su quel vinile (a proposito, chi l'avrebbe mai detto che anni dopo mi sarei trombato la nipote di uno degli interpreti) anche sei, sette volte al giorno, come ogni bravo nerd compulsivo; e anzi dal vinile feci una cassetta, che mi accompagnava spesso in giro per gli autobus di Roma. Mi ricordo un giorno, tornavo da casa di Stefano a casa mia, ci si metteva ore ed era difficile avvisare che avrei fatto tardi per cena, eppure la distanza nel tempo si è progressivamente accorciata, tanto che avrei potuto ascoltare solo una volta il concerto di Brahms nel tragitto, non come allora, che la cassetta girava e rigirava nel walkman mentre il 23 lasciava il posto al 46, implacabilmente spiaggiato sulle rampe dell'Aurelia. Stefano, come ogni vero Romano, non si è spostato dalla sua vecchia casa alla nuova dove vive con moglie e figli che di cinquecento metri in linea d'aria. Io, peraltro, alla fine non ho fatto diversamente. Ho le mie discolpe, ma la verità è che Roma non solo ti impedisce di andartene se non a prezzo di sofferenze, ma ti incatena alla routine dei parchi e delle pasticcerie sotto casa - e sì che tante volte ho cambiato casa: e ora sono pur qui. Ma a differenza di tante altre cose, alcune di pessimo gusto, che ascoltavo in quell'estate del 1989 in cui aspettavo che la casa al mare tornasse libera e dunque potessimo tornare, dalla finestra aperta del quarto piano un sentore d'agosto simbolico, tutto asfalto e la sera il gelsomino e la magnolia, il Secondo concerto di Brahms ha mantenuto ogni volta la sua simbolicità, quello sì, non come l'agosto romano che progressivamente è diventato un agosto come tutti gli altri, l'agosto dei quindici anni come quello dei quaranta, e allora come adesso tutto parla di declino, di morte, di inquietudine almeno: e il Secondo concerto no. Era con me una mattina a scuola, sempre captato in filodiffusione e ascoltato en cachette durante la prima ora - non sono mai riuscito a interromperlo. Era con me in un capodanno a C*** con la Pennellona, un capodanno che fu il nostro ultimo insieme e di cui ho un ricordo pessimo, nonostante fossimo andati a Mantova, ma della gita a Mantova non ricordo nulla, di quel capodanno ricordo l'odore pessimo della casa che avevo in subaffitto, l'acqua arancione che usciva dalle condutture con un borborigmo e un'allure gassosa, ricordo un sesso sporadicissimo e pessimo, da vecchia coppia di neanche due anni, film d'animazione che mi angosciavano, insonnie, nebbia. Mentre preparavo la cena di Capodanno, la vecchia radio se ne uscì col Secondo concerto di Brahms, e solo questo ha salvato il Capodanno e forse pure la storia con la Pennellona è da salvare per quell'apparizione improvvisa. Da venticinque anni non riesco a trattare criticamente il Secondo concerto di Brahms. Mi chiedo se mi avessero domandato un programma di sala per il Secondo concerto di Brahms che cosa avrei fatto, se finalmente avrei potuto trattare criticamente, o brillantemente ma involutamente come sempre ho scritto i miei programmi di sala, il Secondo concerto di Brahms: naturalmente sì, per soldi ho fatto di peggio. Ma mi sarei comunque sentito a disagio, non si raccomanda per un posto di lavoro il proprio migliore amico, non lo si opera, non lo si può trattare con la familiarità che solo si riserva alle persone amiche ma estranee, non al migliore amico, che dunque non è "familiare", ma conserva sempre qualcosa che ce lo rende caro ma sconosciuto, impredicibile e caro, potrebbe fare qualunque cosa e ci sarebbe cara e ci sorprenderebbe, tutto sommato, con la paura che un giorno tutto quest'equilibrio potrebbe rompersi e diventare familiare, ossia abitudinario, e se non discaro sicuramente meno prezioso. Il Secondo concerto di Brahms, ma anche il mio migliore amico, con cui mi intendo senza comprenderlo e anche temendone un po' gli scarti, è stato sempre con me, anche su questo terrazzo in cui la donna a ore ha strappato un bellissimo fiore giallo selvatico. Per lei, un'erbaccia. Avrei dovuto dirglielo. Per fortuna nella radio ascolto il Secondo concerto di Brahms, che è naturalmente più importante della vita del fiore giallo, e della mia, come ho già detto, e che mi sorprende sempre, e che ascolto senza un briciolo di critica, come se non dovesse dirmi nulla, ma fosse, esistesse, e basta. Lo riporto a normale accadimento radiofonico oggettivandolo - fumando un sigaro mentre lo ascolto, piluccando due righe da un libro, ma il concerto è sempre più forte, più inconoscibile, modula quando me l'aspetto ma non per questo la modulazione è meno sorprendente, ogni suo gesto - anche quando quasi mi forzavo a emozionarmi e a lacrimare al termine del crescendo nel trio, mi disprezzo per questo meno di altre cose che ho fatto recitando l'intenditore di musica, imitando l'inimitabile come fanno tutte le persone che imitano, e sicuramente dal disprezzo salvo il Secondo concerto di Brahms, che è tutt'altro che sentimentale, ma naturalmente è anche sentimentale - ogni suo gesto, dicevo, mi accompagna al termine di se stesso, del Secondo concerto di Brahms, che però non termina, riverbera nel mio umile e intasato pianterreno, sfida il rumore del traffico che si attenua e ricresce pian piano che il pomeriggio avanza, mi accompagna a ricominciare la mia fatica quotidiana che è sempre più faticosa e pallida imitazione della vita che meriterebbe il Secondo concerto di Brahms, mentre il fronte occidentale porta turbini e sferza la città, ma addolcito, come se sapesse che da qualche parte il concerto potrebbe apparire, e impedire ad ogni elemento il suo naturale corso.
Terme Deciane
mercoledì 16 aprile 2014
domenica 8 settembre 2013
Senti san Pietro che sbenediziona
Domani mi opero. Non è una vera operazione, è una serie di interventi agli occhi. Così mi dico, per pavidità, scaramanzia (del resto proprio ieri mi è venuta la congiuntivite, e ti pareva: ho gli occhi gonfi e paurosi, mezzo papà Goriot e mezzo vecchio che stamattina, una borsa piena di bottiglie di plastica, ho salutato e poi risalutato al parco per essere sicuro che stesse bene, ripensamento dei pavidi, appunto), che domani potrei non rileggere quello che scrivo, o non riscriverlo. Ma mi resta l'udito, che è diventato più pigro, meno esatto, ma più reminiscente, più attento, più felice al discrimine. Così mi trovo a riconoscere una colonna sonora di Detto Mariano; così mi ricordo Aida non nell'esatta interpretazione del disco che ho ascoltato di più, che poi se riascolto non sembra più così bello, ma in quella che mi sono forgiato con gli anni, e dunque mi commuove questa, che ho nel capo, non quella che sentirei recuperando il disco. Di questo sono orgoglioso, perché mi pare che uno dei due figli unici di cui mi sono occupato in vita mi abbia, infine, concesso udienza - è il caso di dirlo. Oggi il vento da sudovest gonfia le nuvole su uno strato di liscivia brumosa, è la fine dell'estate. Aderisco al mio terrazzino e rifiuto di mettermi un collirio. Le tinte mi paiono già slavate, lampi popolano la mia retina e la mia imaginativa, come direbbe Dante. La radio parla di fotografia, la cui sopravvalutazione è aumentata costantemente negli ultimi decenni e dunque raduna, per fortuna, i finti artisti. Io - non ho più voglia di scrivere. A luglio ho messo giù una paginetta di un coro, mi pare di aver fatto forse abbastanza, o forse mi sento pronto a ricevere commissioni che non arriveranno, mi sento pieno di attesa per la mia seconda giovinezza. Mi vedo marciante sul ciglio della valle dell'Inferno, in senso geografico, il Cupolone incombente, l'orografia pazzesca della città a nordovest, se guardi bene le doppie cime di Santa Maria maggiore, di Villa Medici, antenne, chiese, campagna, e perché mai un pollice davanti agli occhi debba essere più grosso del Monte Gennaro. E tutto questo potrebbe non esserci, ma probabilmente ci sarà lo stesso. Sarò in grado di esitare tra il detto e il sottratto, tra il rendimento di grazie e il fervore, tra la fedeltà e la tendenza a scampagnare, a non invecchiare, se mai tutto andasse bene? Edifici in cortina e parcheggi sotterranei mi accolgono, le piastrelle del mio terrazzo mi danno, a undici mesi dal mio arrivo qui, un senso improvvisorio, ma impermanente.
martedì 23 luglio 2013
Smorzeranno li lumi, e bbonasera
Emettere giudizi è la cosa che mi viene meglio da quando son nato. Alla fine, la maledizione materna, come tutte le maledizioni, si avvera. Tu potresti fare il critico, mi diceva, con inconsapevole dimestichezza della radice linguistica. E così sono finito a fare il correttore di bozze, il sadico correttore di bozze che prende cantonate. Faccio il morto nell’Adriatico, mentre ci penso. Anzi, no, menzogna: vado a piedi verso l'Adriatico, questo bagnapiede con correnti impreviste: una mattina vento da terra, ti trovi in Croazia con due bracciate, un'altra volta dal Conero, oppure dal versante opposto, dal Monte san Bartolo, e tu nuoti (ho l'impressione, perché il giudice è ipocondriaco, che nuotare mi faccia perdere l'udito, oppure è la recitazione della Golino, oppure il ronron della lavatrice in questo appartamento che è una volta e mezza quello in cui vivo di solito) e in un quarto d'ora di furiose, ancorché scoordinate, bracciate, ti trovi sempre nello stesso punto - e quando poi rinuncio, mi abbandono, la corrente mi riporta indietro senza sforzo: tutte correnti trasversali, infide, di taglio, il minax Hadriaticus domato da questi filari di scogli interminati, da qui ad Ancona, e oltre, fino ad Ascoli, a Termoli, finché ci saranno signore con adipe che immagineranno che camminando mezz'ora lentissimamente ma gagliardamente con l'acqua a mezza coscia smaltiranno tutti i figli, le amarezze, i pranzi dalla suocera, le ricorrenze che non sono state ricorse, le telefonate non telefonate. Altra cosa il Tirreno: scirocco, o maestrale, spesso, che ti riporta a casa ogni volta che ti allontani. Magari morto, ma ti riporta a casa. Qui invece mi sembra che potrei essere trascinato dove non voglio, come il patrono della mia città ben sapeva. Ma stasera nulla si muove. Vedo solo un cerchio che ricorda (il giudice è ipocondriaco) la mia retina accartocciata, o possibilmente accartocciata dopo i trecento colpi di laser ogni quarto d'ora e un quarto d'ora ogni settimana. Ho emesso giudizi equanimamente in tutti i campi: dalla letteratura all'abbigliamento al calcio, e dio sa quanto poco mi intenda di tutto: ma del resto ero in anticipo su quest'epoca di ciarlatori, e io, che mi sono sempre tacciato, vantato, d'inattualità, invece ero in anticipo, io scrivevo le lettere al direttore a tredici anni (una particolarmente riuscita al direttore del Guerin Sportivo, per lamentarmi del voto dato a Giannini in uno Svezia-Italia: mai inviata, comunque l'anno prima avevo chiamato la Gazzetta per spezzare una lancia a favore dei calciatori sul viale del tramonto), io giudicavo, implacabilmente, ero un grillino arcigno e malmostoso, e adesso, in un evo in cui tutti giudicano, e sono letti, cosa che a me non capitava, ora giudico tacitamente, o a cena, o al telefono, o sulle bozze. E mentre sono lì, il rombo dell'Adriatico, sommesso, sciabordante, penso che potrei aver sbagliato tutte le correzioni, e ora è tardi: e per questo, e altre cause che non c'entrano, domani potrei perdere il lavoro, e non tornare più sull'Adriatico a fare questa vita mista villaggio-vacanze/filologia, con la filologia che assomiglia sempre più a un'illusione. E allora, senza la paghetta, come farò con i miei lussi da compositore? le mie vacanze e i miei giudizi sommari costano: soprattutto questi ultimi. Non che sia intollerante: sono un ottimo giudice, imparziale, non mi faccio corrompere. Ma ogni giudizio è un arbitrio, specie perché è volatile, un secondo dopo c'è il nulla, così come l'ombra dell'Ardizio insegue il mio telo da bagno fino a superarlo, diretta a sud. Domani mi sveglio alle sei per salvare il salvabile, ma che cosa bisogni salvare, non sappiamo. Non certo la messa di cui facciamo l'edizione - che non sarà fatta costringendoci alle dimissioni, al maelström. Sarà un peccato. È stato un privilegio immeritato quello di sfiorare, accarezzare, la dedica dell'ultimo peccato mortale del Grande compositore, pur coi guanti e contando i bifolii. Non ero da solo, avrei baciato quelle righe, invece le ho accarezzate rimettendo a riposare il manoscritto, ripetendo, non ho dubbi, i gesti fatti negli ultimi centocinquant'anni da affaristi e amatori, da parenti e legatari e restauratori. Poca scienza, un po' di cuore, tutto qui.
martedì 9 ottobre 2012
vaghi di caffè
Mi irriti, Cortázar. C'è poco da fare, mi irriti. Mi irriti perché hai l'idea fissa che il mondo sarebbe migliore se popolato da scemi, ossia da eterni bambini che mettono cravatte a forma di ippopotamo o scarpe di colore diverso, che poi sarebbero artisti, alla fine. Mi irriti con questa idea di artisti che devono essere dei disadattati capaci di inventare, come Archimede Pitagorico. Mi irriti: per me l'artista ideale, che poi non si chiamerebbe artista nemmeno nel peggiore dei mondi, tanto l'hai contaminato, non da solo, con questa idea che debba essere un disadattato cronico capace di inventare gag, dovrebbe essere un burocrate timoroso e lavoratore: onesto, puntuale, buon debitore, uno che paga i conti del pizzicarolo in tempo, uno che ha un lavoro, appunto. Ecco, perché vorrei che un artista, anzi, chiamiamolo un coso, ecco, vorrei che un coso fosse come me, in quanto così anche io sarei un coso, anzi: non sarei un coso ma avrei tratti in comune con un coso e un giorno non dovrei cambiare abitudini per diventare un coso. Oltretutto io non vorrei mai diventare un coso: vorrei restare un allegro argomentatore rompicoglioni, uno affidabile, uno che non è mai stato inseguito dal pizzicarolo (non so perché, i cosi forse ce l'avranno coi pizzicaroli, che mi accanisco anche io con loro?). E soprattutto, fossi un coso che suona, invece di un coso che compone, anzi, di un compositore, non di un coso, non farei mai bis, non strizzerei l'occhiolino al pubblico, sarei un coso competente, equilibrato. Mi irriti perché non solo, Cortázar, io non sono un coso disadattato, ma addirittura non sono un coso adattato. Mi irriti perché mio padre non sapendo che regalarmi fin dalla più tenera infanzia mi ha regalato, Cortázar, i tuoi libri, che andavano di moda negli anni Sessanta, prima che io nascessi già sapeva che mi avrebbe regalato, dieci anni dopo, i tuoi libri, Cortázar, e mio padre si è fermato agli anni Sessanta: è un coso degli anni Sessanta, che ha dei cosi le tue stesse idee, Cortázar, fanciulli incapaci scagliati in un mondo da contemplare a occhi aperti per la meraviglia, Cortázar. E invece il mondo è monotono, destinato a perire, e popolato da pochissimi cosi degni di questo nome, e da tanti disadattati che si credono cosi, anche per colpa tua, che mi irriti. E mio padre, che ciononpertanto è un coso, continuerà a pensare che sei un prodotto di nicchia che si può regalare impunemente, e il giorno che morirà i tuoi eredi subiranno un piccolo tracollo, Cortázar, e mi dispiacerebbe, perché io ho tutti i tuoi libri regalati da mio padre, che addirittura mi piacevano quando ero piccolo, quando anche io pensavo a quindici anni che potevo essere un coso disadattato, e invece ero disadattato ma nel senso opposto del disadattamento del fanciullino, bensì nel senso del burocrate in pectore che è entrato in ufficio troppo prima dei suoi colleghi, figuriamoci dei disadattati veri. Bisogna che regoliamo i conti, Cortázar, tu mi irriti, con il tuo jazz, il tuo dadaismo, e le tue infinite reminiscenze letterarie, metafore, sinestesie. L'esattezza, altro che questo magone argentino che mio padre ha in comune con te e che ha adottato per moda, probabilmente, se non fosse che allo stesso tempo tutti gli argentini lo adottavano per moda e dunque tutti sono stati irritanti. In realtà tu sei stato un coso, ma sistematizzare i cosi è meglio evitare: perché per ogni Lautréamont c'è un Italo Svevo, perché poi stamattina sentivo un burocrate parlare della nostra Sala degli affreschi, con la loggia chiusa decorata a grottesche e l'affresco al centro con la Regina di Saba, e mentre parlava dell'esattezza della linea tanto esile che quasi ambisce a non esserlo, a negarsi, e delle figure tridimensionali che però si muovono dove non c'è uno sfondo, del manierismo, della perdita di unità a favore della molteplicità, io ho cominciato ad apprezzare per la prima volta dopo tre anni quella stanza, quelle grottesche, e la Regina di Saba sembrava che con quelle grottesche, quelle tigri, quei festoni, avesse aperto il sacco dei doni per Salomone, ma fuori del quadro: così da far intuire a Salomone un mondo di fiere, di meraviglie orientali, dove il caos e la saggezza possono darsi una mano, dove la ricchezza è multiforme, dove c'è sempre qualcosa più a sud e più a est: e questo grazie a uno che voleva fare il coso, come violoncellista, poi come architetto, e adesso fa le visite guidate ai babbioni in modo puntuale, preciso, arrivando in anticipo, rispettando i tempi. Mi irriti, Cortázar, però mi fai riflettere. E questo, in un mondo di cosi che ti fanno perdere le serate a ascoltarli invece che a riflettere, non è poco pregio: fa di te, quasi, a dire il vero, un coso affidabile cui mandare un messaggio.
domenica 7 ottobre 2012
ce se va co la freggna che ve scanni
Venerdì il bancomat si smagnetizza. Poi la metropolitana si guasta: la linea, dicono, tra Termini e Anagnina. Rimango bloccato a Flaminio per venti minuti. Per prendere il treno corro e salgo scale sgominando caviglie e turisti troppo lenti sulla strada, salendovi in quattro minuti netti. Sabato un ristorante di pesce alle pendici delle Prealpi tenta di avvelenarci con un cartoccio di domopak a forma di cigno pieno di cozze e vongole da cui sprigiona un odore di ammoniaca e marcio. Domenica la linea ferroviaria si rompe a Gallese: veniamo deviati, anzi, lo siamo tuttora, sulla linea secondaria, che suppongo sia la Civita Castellana-piazzale Flaminio. Il bar finisce i panini e i tramezzini, cui non par vero trovare acquirenti. L'immagine è quella di una civiltà in declino. Ma non per eccesso di modernità, di sibaritismo, di psicanalisi, non per una guerra nucleare: la civiltà sembra - ed è - in declino perché ha fatto il passo più lungo della gamba: frutti di mare a Orzinuovi, treni a trecento chilometri all'ora, metropolitane che convogliano centocinquantamila persone. Poi basta un dettaglio e tutto va a gambe all'aria. Ed è in questo mondo di imperfezioni che io cerco di portare un desiderio di puntuale efficienza, non riuscendovi. Nevrosi che, insieme ad altre, confesso a Serena sul divano dove sediamo insieme. Non voglio figli, le dico, come altre volte: ma questa volta tra singhiozzi, gemebondo: non voglio mettere al mondo degli infelici, non voglio essere responsabile della loro morte, che avverrà, e sarà atroce, come la mia, la tua, quella delle persone a me care, declino e morte che già vivo ogni giorno, svegliandomi tra gli incubi: talora un cancro alla pelle, una casa porosa alle intemperie, una marcia di dodici chilometri fino a Tuscania. Per questo, le dico, non voglio figli. E siccome mio padre due matrimoni ha mandato in fumo, non voglio sposarti, perché non voglio giurare fedeltà e assistenza se poi, come potrebbe essere, tutto questo si rivelasse un dì flatus vocis: io sono una persona esatta, io, e non voglio le approssimazioni. Per questo Serena, che mi ama, sebbene neghi che sia il passo d'addio, la fine del nostro rapporto, comunque vuol prendersi una pausa. Ironia: un tempo la sola menzione di una pausa mi avrebbe fatto fuggire, tentare strategie per rendermi inattaccabile, o-la-va-o-la-spacca: mai farsi logorare, sempre avere il coltello dalla parte del manico. Ma stavolta la posta è elevata. Si tratta di decidere se voglio essere come sono, o diventare un altro. Un buon padre di famiglia; un uomo che non tradisce; un marito; e trasferirmi in una operosa città del nord, che non è Poggio Mirteto, dove il treno ferma in un anelito di Sabina prima di arrivare in grembo al Tevere, se mai ci arriverà. Serena capisce: lei pure dovrebbe rinunciare a tutto per diventare un'altra persona. E in queste metamorfosi che non possono compiersi sta il nostro stallo amoroso. Invita invitum dimisit, come Tito e Berenice ma al contrario esatto. Nel frattempo mando messaggi a quattro donne diverse, così, per seguire il vecchio consiglio dello zio di Stendhal al nipote: «dans vingt-quatre heures que l'on vous a quitté, faites une déclaration, fût-ce même à une femme de chambre». Dispositivi elettronici in panne continua, relitti e lacerti di zone residenziali attorno a Roma, coincidenze che vengono perdute, appetitose studentesse fuori sede che ripassano gli appunti giocherellando col cellulare che non prende. Il cosiddetto nodo di Termini ancora inganna i viaggiatori incanalandoli in scale mobili senza senso. Il turbine del ventunesimo secolo è appena cominciato e, c'è da giurarci, manterrà tutte le sue promesse.
giovedì 4 ottobre 2012
Lograte le scarpe e li stivali
Il mio omonimo non è cambiato molto, in questi anni. Mi saluta appena, e io so che mi odia. Per lui sono il figlio di papà raccomandato, il che, per chi mi conosce e soprattutto conosce il papà del figlio, pare inverosimile. Invece lentamente mi sta convincendo. All'ammissione di direzione gli finii davanti. All'ammissione di composizione idem. Adesso scrivo un'opera per l'istituzione dove lavoro: mi sono venduto per un'opera invece del piatto di lenticchie? Lui non sa che gli do ragione. Ha un che di leporino, di somigliante al professore di filosofia calabrese che proprio oggi ri-immaginavo mentre pronunciava «Giag» il nome «Jacques». Lui non sa che quest'opera non mi darà alcuna gioia, o meglio, sì, ma come tutte le cose definitive, in cui non ci si può che riconoscere, e portarle al massimo impegno, darà fastidi, mi farà venire le squame, o non so che male. O forse lo sa. Guardo con attenzione il palazzo dei Pupazzi, lercio di smog, ma meraviglioso esempio di quell'arte tardocinquecentesca che ogni tanto ti viene incontro senza invasività, con gusto del dettaglio allucinato. A via Giulia si susseguono divieti di fermata e rimozione forzatissima, con l'effetto di una fila ininterrotta di macchine in sosta da piazza dell'Oro a ponte Sisto. Mi chiedo oziosamente che cosa sarebbe successo se ci fosse stato il solo divieto di sosta: probabilmente avrebbero parcheggiato torpedoni, bighe, carri allegorici, gru, betoniere, l'Enterprise e un Tupolev. Un gabbiano troneggia sopra Metastasio, che lo ignora. Guardo, un occhio torto a vedere se passa il novecentosedici, la facciata dei Filippini. Un grillo in mezzo al casino primordiale di corso Vittorio, sopra la fontana della Terrina. La facciata dei Filippini è storta. E questo lo sapevamo. Ma io insisto: no, è proprio storto, nel senso che il timpano mistilineo - ecco, ecco qual è il segreto - sembra più corto in una delle due metà. Cioè, è storto. Sì, ma lo sapevamo, rispondono gli architetti ancora una volta. Fottetevi, dico io, fatemi fare il turista. Piazza Sforza Cesarini stranamente tranquilla, pulita, in attesa del panico che coglierà questa arteria risorgimentale domani mattina. Eppure familiare: metro per metro e fermata per fermata, comodo accesso a tutta la mia vita, un po' mistilinea anch'essa. Mi vengono anche delle idee. Sono abbronzato; e si vede. La mattina al Terzo cancello, tra residui di marocchini con ombrelli, bresciali (idest bracciali) e oggetti non meglio identificabili. Proprio mentre Alessandra mi chiamava e dovevo andarmene arrivano due tedesche, una mora e una bionda, proprio come nei film scollacciati. Dico ad Alessandra: mi hai tolto il piacere del rimorchio gratuito, uno degli ultimi che restano alla vita moderna. Siamo amici, possiamo dirci tutto. Lei sorride con la sua dentatura un po' irregolare. La sera si sfilaccia in bioccoli che si addensano, presagio di chissà che umidità che sconteremo tutta a novembre. Ma adesso è quel simulacro d'estate che amavo tanto, e amo: raccolgono telline, si bagnano, passeggiano a mezza coscia nell'acqua come se domani fosse luglio. L'umanità, inguaribile, assolata, ottimista.
mercoledì 3 ottobre 2012
Alla sanfansò
«Hanno tutto! hanno tutto!», mi dico entusiasta vagando per il negozio dei Cinesi: hanno tutto!, entro dicendomi: pompa per la bicicletta? certo! micromine 2b da 0.5? come no! e... (pausa) pennelli? faccio gesti ampi per descrivere il pennello. Così piccolo? no, più grande. Pausa e... certo! sotto. Hanno tutto! e scendo le scale trovando tutto. Oggi è una di quelle giornate alla rinfusa, alla va-comme-vient, come un negozio di Cinesi. C'è tutto. C'è il mio amico e compagno di studi che deve dirigere la mia modesta opera appena reduce da un'operazione al cranio. Entra con un cappellino da baseball, con - effettivamente - la cucitura che fa sembrare la capoccia una palla da baseball. Trema ancora un po' alle giunture, esita. C'è il pianista-musicologo che fa male entrambe le cose: accompagnato da una virago tedesca piorroica di cui non sappiamo lo status, uccide il residuo dell'accordatura dello Steinway mentre sul suo dispositivo portatile possiamo leggere la partitura. Finisce il primo pezzo, io non so come passare al secondo, e così tocco a caso lo schermo. Ed ecco improvvisamente apparire una galleria di video intitolati «femdom hardcore»... e più non leggo innanzi, mentre suona Balakirev, cercando di tornare frettolosamente indietro prima che qualcuno se ne accorga: c'è di tutto! anche il materiale da pippe della pippa (inteso come pippa lui, il pianista, e come pippe quelle che gli evitano commercio carnale con la virago). C'è di tutto! la Biblioteca nazionale che chiude, l'opera che doveva andare in scena che non va più in scena: e l'agente canadese che vuole organizzare una giornata canadese in cui troverebbero posto sette concerti in un pomeriggio, un buffet con aragoste vive, salmone, musica tradizionale meticcia, conferenze via skype col primo ministro, installazioni e video, film: di tutto, compreso il fatto che non riesco a farle capire che sappiamo perfettamente che il Canada è in America, che non siamo di quelli che pensano all'America quando parliamo degli Stati Uniti (d'America), che, insomma, avendola scoperta, l'America, sappiamo qualcosa dell'America. Cristofero Colombo cià er busto ar Pincio, parafraserebbe Pascarella, e dunque era italiano. C'è di tutto, dunque: la voglia di finire lavori terminati con una solenne sessione in cui dall'alluce all'ombelico ai capezzoli alle spalle al lobo e giù al bordo del seno al fianco all'inguine e su e giù e su non ci sia centimetro non mordibile, spalmabile, leccabile: di tutto.
Dopodiché entra un signore con un cartoncino bristol azzurro, che presenta, oscillando per l'età già avanzata, alla cassiera.
«Ne avete un cartoncino così?»
«No.»
Neanche una pausa. Medito, scornato. Non c'è tutto, non è mai troppo tutto.
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