martedì 9 ottobre 2012

vaghi di caffè

Mi irriti, Cortázar. C'è poco da fare, mi irriti. Mi irriti perché hai l'idea fissa che il mondo sarebbe migliore se popolato da scemi, ossia da eterni bambini che mettono cravatte a forma di ippopotamo o  scarpe di colore diverso, che poi sarebbero artisti, alla fine. Mi irriti con questa idea di artisti che devono essere dei disadattati capaci di inventare, come Archimede Pitagorico. Mi irriti: per me l'artista ideale, che poi non si chiamerebbe artista nemmeno nel peggiore dei mondi, tanto l'hai contaminato, non da solo, con questa idea che debba essere un disadattato cronico capace di inventare gag, dovrebbe essere un burocrate timoroso e lavoratore: onesto, puntuale, buon debitore, uno che paga i conti del pizzicarolo in tempo, uno che ha un lavoro, appunto. Ecco, perché vorrei che un artista, anzi, chiamiamolo un coso, ecco, vorrei che un coso fosse come me, in quanto così anche io sarei un coso, anzi: non sarei un coso ma avrei tratti in comune con un coso e un giorno non dovrei cambiare abitudini per diventare un coso. Oltretutto io non vorrei mai diventare un coso: vorrei restare un allegro argomentatore rompicoglioni, uno affidabile, uno che non è mai stato inseguito dal pizzicarolo (non so perché, i cosi forse ce l'avranno coi pizzicaroli, che mi accanisco anche io con loro?). E soprattutto, fossi un coso che suona, invece di un coso che compone, anzi, di un compositore, non di un coso, non farei mai bis, non strizzerei l'occhiolino al pubblico, sarei un coso competente, equilibrato. Mi irriti perché non solo, Cortázar, io non sono un coso disadattato, ma addirittura non sono un coso adattato. Mi irriti perché mio padre non sapendo che regalarmi fin dalla più tenera infanzia mi ha regalato, Cortázar, i tuoi libri, che andavano di moda negli anni Sessanta, prima che io nascessi già sapeva che mi avrebbe regalato, dieci anni dopo, i tuoi libri, Cortázar, e mio padre si è fermato agli anni Sessanta: è un coso degli anni Sessanta, che ha dei cosi le tue stesse idee, Cortázar, fanciulli incapaci scagliati in un mondo da contemplare a occhi aperti per la meraviglia, Cortázar. E invece il mondo è monotono, destinato a perire, e popolato da pochissimi cosi degni di questo nome, e da tanti disadattati che si credono cosi, anche per colpa tua, che mi irriti. E mio padre, che ciononpertanto è un coso, continuerà a pensare che sei un prodotto di nicchia che si può regalare impunemente, e il giorno che morirà i tuoi eredi subiranno un piccolo tracollo, Cortázar, e mi dispiacerebbe, perché io ho tutti i tuoi libri regalati da mio padre, che addirittura mi piacevano quando ero piccolo, quando anche io pensavo a quindici anni che potevo essere un coso disadattato, e invece ero disadattato ma nel senso opposto del disadattamento del fanciullino, bensì nel senso del burocrate in pectore che è entrato in ufficio troppo prima dei suoi colleghi, figuriamoci dei disadattati veri. Bisogna che regoliamo i conti, Cortázar, tu mi irriti, con il tuo jazz, il tuo dadaismo, e le tue infinite reminiscenze letterarie, metafore, sinestesie. L'esattezza, altro che questo magone argentino che mio padre ha in comune con te e che ha adottato per moda, probabilmente, se non fosse che allo stesso tempo tutti gli argentini lo adottavano per moda e dunque tutti sono stati irritanti. In realtà tu sei stato un coso, ma sistematizzare i cosi è meglio evitare: perché per ogni Lautréamont c'è un Italo Svevo, perché poi stamattina sentivo un burocrate parlare della nostra Sala degli affreschi, con la loggia chiusa decorata a grottesche e l'affresco al centro con la Regina di Saba, e mentre parlava dell'esattezza della linea tanto esile che quasi ambisce a non esserlo, a negarsi, e delle figure tridimensionali che però si muovono dove non c'è uno sfondo, del manierismo, della perdita di unità a favore della molteplicità, io ho cominciato ad apprezzare per la prima volta dopo tre anni quella stanza, quelle grottesche, e la Regina di Saba sembrava che con quelle grottesche, quelle tigri, quei festoni, avesse aperto il sacco dei doni per Salomone, ma fuori del quadro: così da far intuire a Salomone un mondo di fiere, di meraviglie orientali, dove il caos e la saggezza possono darsi una mano, dove la ricchezza è multiforme, dove c'è sempre qualcosa più a sud e più a est: e questo grazie a uno che voleva fare il coso, come violoncellista, poi come architetto, e adesso fa le visite guidate ai babbioni in modo puntuale, preciso, arrivando in anticipo, rispettando i tempi. Mi irriti, Cortázar, però mi fai riflettere. E questo, in un mondo di cosi che ti fanno perdere le serate a ascoltarli invece che a riflettere, non è poco pregio: fa di te, quasi, a dire il vero, un coso affidabile cui mandare un messaggio.

domenica 7 ottobre 2012

ce se va co la freggna che ve scanni

Venerdì il bancomat si smagnetizza. Poi la metropolitana si guasta: la linea, dicono, tra Termini e Anagnina. Rimango bloccato a Flaminio per venti minuti. Per prendere il treno corro e salgo scale sgominando caviglie e turisti troppo lenti sulla strada, salendovi in quattro minuti netti. Sabato un ristorante di pesce alle pendici delle Prealpi tenta di avvelenarci con un cartoccio di domopak a forma di cigno pieno di cozze e vongole da cui sprigiona un odore di ammoniaca e marcio. Domenica la linea ferroviaria si rompe a Gallese: veniamo deviati, anzi, lo siamo tuttora, sulla linea secondaria, che suppongo sia la Civita Castellana-piazzale Flaminio. Il bar finisce i panini e i tramezzini, cui non par vero trovare acquirenti. L'immagine è quella di una civiltà in declino. Ma non per eccesso di modernità, di sibaritismo, di psicanalisi, non per una guerra nucleare: la civiltà sembra - ed è - in declino perché ha fatto il passo più lungo della gamba: frutti di mare a Orzinuovi, treni a trecento chilometri all'ora, metropolitane che convogliano centocinquantamila persone. Poi basta un dettaglio e tutto va a gambe all'aria. Ed è in questo mondo di imperfezioni che io cerco di portare un desiderio di puntuale efficienza, non riuscendovi. Nevrosi che, insieme ad altre, confesso a Serena sul divano dove sediamo insieme. Non voglio figli, le dico, come altre volte: ma questa volta tra singhiozzi, gemebondo: non voglio mettere al mondo degli infelici, non voglio essere responsabile della loro morte, che avverrà, e sarà atroce, come la mia, la tua, quella delle persone a me care, declino e morte che già vivo ogni giorno, svegliandomi tra gli incubi: talora un cancro alla pelle, una casa porosa alle intemperie, una marcia di dodici chilometri fino a Tuscania. Per questo, le dico, non voglio figli. E siccome mio padre due matrimoni ha mandato in fumo, non voglio sposarti, perché non voglio giurare fedeltà e assistenza se poi, come potrebbe essere, tutto questo si rivelasse un dì flatus vocis: io sono una persona esatta, io, e non voglio le approssimazioni. Per questo Serena, che mi ama, sebbene neghi che sia il passo d'addio, la fine del nostro rapporto, comunque vuol prendersi una pausa. Ironia: un tempo la sola menzione di una pausa mi avrebbe fatto fuggire, tentare strategie per rendermi inattaccabile, o-la-va-o-la-spacca: mai farsi logorare, sempre avere il coltello dalla parte del manico. Ma stavolta la posta è elevata. Si tratta di decidere se voglio essere come sono, o diventare un altro. Un buon padre di famiglia; un uomo che non tradisce; un marito; e trasferirmi in una operosa città del nord, che non è Poggio Mirteto, dove il treno ferma in un anelito di Sabina prima di arrivare in grembo al Tevere, se mai ci arriverà. Serena capisce: lei pure dovrebbe rinunciare a tutto per diventare un'altra persona. E in queste metamorfosi che non possono compiersi sta il nostro stallo amoroso. Invita invitum dimisit, come Tito e Berenice ma al contrario esatto. Nel frattempo mando messaggi a quattro donne diverse, così, per seguire il vecchio consiglio dello zio di Stendhal al nipote: «dans vingt-quatre heures que l'on vous a quitté, faites une déclaration, fût-ce même à une femme de chambre». Dispositivi elettronici in panne continua, relitti e lacerti di zone residenziali attorno a Roma, coincidenze che vengono perdute, appetitose studentesse fuori sede che ripassano gli appunti giocherellando col cellulare che non prende. Il cosiddetto nodo di Termini ancora inganna i viaggiatori incanalandoli in scale mobili senza senso. Il turbine del ventunesimo secolo è appena cominciato e, c'è da giurarci, manterrà tutte le sue promesse.

giovedì 4 ottobre 2012

Lograte le scarpe e li stivali

Il mio omonimo non è cambiato molto, in questi anni. Mi saluta appena, e io so che mi odia. Per lui sono il figlio di papà raccomandato, il che, per chi mi conosce e soprattutto conosce il papà del figlio, pare inverosimile. Invece lentamente mi sta convincendo. All'ammissione di direzione gli finii davanti. All'ammissione di composizione idem. Adesso scrivo un'opera per l'istituzione dove lavoro: mi sono venduto per un'opera invece del piatto di lenticchie? Lui non sa che gli do ragione. Ha un che di leporino, di somigliante al professore di filosofia calabrese che proprio oggi ri-immaginavo mentre pronunciava «Giag» il nome «Jacques». Lui non sa che quest'opera non mi darà alcuna gioia, o meglio, sì, ma come tutte le cose definitive, in cui non ci si può che riconoscere, e portarle al massimo impegno, darà fastidi, mi farà venire le squame, o non so che male. O forse lo sa. Guardo con attenzione il palazzo dei Pupazzi, lercio di smog, ma meraviglioso esempio di quell'arte tardocinquecentesca che ogni tanto ti viene incontro senza invasività, con gusto del dettaglio allucinato. A via Giulia si susseguono divieti di fermata e rimozione forzatissima, con l'effetto di una fila ininterrotta di macchine in sosta da piazza dell'Oro a ponte Sisto. Mi chiedo oziosamente che cosa sarebbe successo se ci fosse stato il solo divieto di sosta: probabilmente avrebbero parcheggiato torpedoni, bighe, carri allegorici, gru, betoniere, l'Enterprise e un Tupolev. Un gabbiano troneggia sopra Metastasio, che lo ignora. Guardo, un occhio torto a vedere se passa il novecentosedici, la facciata dei Filippini. Un grillo in mezzo al casino primordiale di corso Vittorio, sopra la fontana della Terrina. La facciata dei Filippini è storta. E questo lo sapevamo. Ma io insisto: no, è proprio storto, nel senso che il timpano mistilineo - ecco, ecco qual è il segreto - sembra più corto in una delle due metà. Cioè, è storto. Sì, ma lo sapevamo, rispondono gli architetti ancora una volta. Fottetevi, dico io, fatemi fare il turista. Piazza Sforza Cesarini stranamente tranquilla, pulita, in attesa del panico che coglierà questa arteria risorgimentale domani mattina. Eppure familiare: metro per metro e fermata per fermata, comodo accesso a tutta la mia vita, un po' mistilinea anch'essa. Mi vengono anche delle idee. Sono abbronzato; e si vede. La mattina al Terzo cancello, tra residui di marocchini con ombrelli, bresciali (idest bracciali) e oggetti non meglio identificabili. Proprio mentre Alessandra mi chiamava e dovevo andarmene arrivano due tedesche, una mora e una bionda, proprio come nei film scollacciati. Dico ad Alessandra: mi hai tolto il piacere del rimorchio gratuito, uno degli ultimi che restano alla vita moderna. Siamo amici, possiamo dirci tutto. Lei sorride con la sua dentatura un po' irregolare. La sera si sfilaccia in bioccoli che si addensano, presagio di chissà che umidità che sconteremo tutta a novembre. Ma adesso è quel simulacro d'estate che amavo tanto, e amo: raccolgono telline, si bagnano, passeggiano a mezza coscia nell'acqua come se domani fosse luglio. L'umanità, inguaribile, assolata, ottimista.

mercoledì 3 ottobre 2012

Alla sanfansò

«Hanno tutto! hanno tutto!», mi dico entusiasta vagando per il negozio dei Cinesi: hanno tutto!, entro dicendomi: pompa per la bicicletta? certo! micromine 2b da 0.5? come no! e... (pausa) pennelli? faccio gesti ampi per descrivere il pennello. Così piccolo? no, più grande. Pausa e... certo! sotto. Hanno tutto! e scendo le scale trovando tutto. Oggi è una di quelle giornate alla rinfusa, alla va-comme-vient, come un negozio di Cinesi. C'è tutto. C'è il mio amico e compagno di studi che deve dirigere la mia modesta opera appena reduce da un'operazione al cranio. Entra con un cappellino da baseball, con - effettivamente - la cucitura che fa sembrare la capoccia una palla da baseball. Trema ancora un po' alle giunture, esita. C'è il pianista-musicologo che fa male entrambe le cose: accompagnato da una virago tedesca piorroica di cui non sappiamo lo status, uccide il residuo dell'accordatura dello Steinway mentre sul suo dispositivo portatile possiamo leggere la partitura. Finisce il primo pezzo, io non so come passare al secondo, e così tocco a caso lo schermo. Ed ecco improvvisamente apparire una galleria di video intitolati «femdom hardcore»... e più non leggo innanzi, mentre suona Balakirev, cercando di tornare frettolosamente indietro prima che qualcuno se ne accorga: c'è di tutto! anche il materiale da pippe della pippa (inteso come pippa lui, il pianista, e come pippe quelle che gli evitano commercio carnale con la virago). C'è di tutto! la Biblioteca nazionale che chiude, l'opera che doveva andare in scena che non va più in scena: e l'agente canadese che vuole organizzare una giornata canadese in cui troverebbero posto sette concerti in un pomeriggio, un buffet con aragoste vive, salmone, musica tradizionale meticcia, conferenze via skype col primo ministro, installazioni e video, film: di tutto, compreso il fatto che non riesco a farle capire che sappiamo perfettamente che il Canada è in America, che non siamo di quelli che pensano all'America quando parliamo degli Stati Uniti (d'America), che, insomma, avendola scoperta, l'America, sappiamo qualcosa dell'America. Cristofero Colombo cià er busto ar Pincio, parafraserebbe Pascarella, e dunque era italiano. C'è di tutto, dunque: la voglia di finire lavori terminati con una solenne sessione in cui dall'alluce all'ombelico ai capezzoli alle spalle al lobo e giù al bordo del seno al fianco all'inguine e su e giù e su non ci sia centimetro non mordibile, spalmabile, leccabile: di tutto.
Dopodiché entra un signore con un cartoncino bristol azzurro, che presenta, oscillando per l'età già avanzata, alla cassiera.
«Ne avete un cartoncino così?»
«No.»
Neanche una pausa. Medito, scornato. Non c'è tutto, non è mai troppo tutto.

martedì 2 ottobre 2012

io, e l'asino mio

Indice delle cose notevoli: assoluta intercambiabilità di Tajani e di Frattini, il che però a ben pensarci non è una cosa notevole; mancanza di sorpresa per il fatto che i burini vadano a vivere ai Parioli; fastidio per chi dice: tanto ce la farai. Sì, intanto sono io a farmi il culo, così so' bravi tutti; totale incomprensione verso: l'olio a crudo, gli spaghettini e le linguine diafane che mia madre si ostina a comprare; fantasia illimitata dello spam:
«Grazie per la vostra posta ho il benvenuto ok così io sono interessato a sapere che molto bene, quindi io come voi di contattarmi attraverso il mio indirizzo email (....@yahoo.com) in modo che si possa parlare pastella e si conoscono molto bene ok io sono in attesa di sentire da voi presto ok grazie e Dio vi benedica.
tuo amico
Benedizione.»
Il fatto che si tratti della cosa migliore della giornata la dice lunga sulla medesima.
E sapere come si dice «pastella» in Inglese mi farà apprezzare meglio fish & chips.