domenica 8 settembre 2013

Senti san Pietro che sbenediziona

Domani mi opero. Non è una vera operazione, è una serie di interventi agli occhi. Così mi dico, per pavidità, scaramanzia (del resto proprio ieri mi è venuta la congiuntivite, e ti pareva: ho gli occhi gonfi e paurosi, mezzo papà Goriot e mezzo vecchio che stamattina, una borsa piena di bottiglie di plastica, ho salutato e poi risalutato al parco per essere sicuro che stesse bene, ripensamento dei pavidi, appunto), che domani potrei non rileggere quello che scrivo, o non riscriverlo. Ma mi resta l'udito, che è diventato più pigro, meno esatto, ma più reminiscente, più attento, più felice al discrimine. Così mi trovo a riconoscere una colonna sonora di Detto Mariano; così mi ricordo Aida non nell'esatta interpretazione del disco che ho ascoltato di più, che poi se riascolto non sembra più così bello, ma in quella che mi sono forgiato con gli anni, e dunque mi commuove questa, che ho nel capo, non quella che sentirei recuperando il disco. Di questo sono orgoglioso, perché mi pare che uno dei due figli unici di cui mi sono occupato in vita mi abbia, infine, concesso udienza - è il caso di dirlo. Oggi il vento da sudovest gonfia le nuvole su uno strato di liscivia brumosa, è la fine dell'estate. Aderisco al mio terrazzino e rifiuto di mettermi un collirio. Le tinte mi paiono già slavate, lampi popolano la mia retina e la mia imaginativa, come direbbe Dante. La radio parla di fotografia, la cui sopravvalutazione è aumentata costantemente negli ultimi decenni e dunque raduna, per fortuna, i finti artisti. Io - non ho più voglia di scrivere. A luglio ho messo giù una paginetta di un coro, mi pare di aver fatto forse abbastanza, o forse mi sento pronto a ricevere commissioni che non arriveranno, mi sento pieno di attesa per la mia seconda giovinezza. Mi vedo marciante sul ciglio della valle dell'Inferno, in senso geografico, il Cupolone incombente, l'orografia pazzesca della città a nordovest, se guardi bene le doppie cime di Santa Maria maggiore, di Villa Medici, antenne, chiese, campagna, e perché mai un pollice davanti agli occhi debba essere più grosso del Monte Gennaro. E tutto questo potrebbe non esserci, ma probabilmente ci sarà lo stesso. Sarò in grado di esitare tra il detto e il sottratto, tra il rendimento di grazie e il fervore, tra la fedeltà e la tendenza a scampagnare, a non invecchiare, se mai tutto andasse bene? Edifici in cortina e parcheggi sotterranei mi accolgono, le piastrelle del mio terrazzo mi danno, a undici mesi dal mio arrivo qui, un senso improvvisorio, ma impermanente.

martedì 23 luglio 2013

Smorzeranno li lumi, e bbonasera


Emettere giudizi è la cosa che mi viene meglio da quando son nato. Alla fine, la maledizione materna, come tutte le maledizioni, si avvera. Tu potresti fare il critico, mi diceva, con inconsapevole dimestichezza della radice linguistica. E così sono finito a fare il correttore di bozze, il sadico correttore di bozze che prende cantonate. Faccio il morto nell’Adriatico, mentre ci penso. Anzi, no, menzogna: vado a piedi verso l'Adriatico, questo bagnapiede con correnti impreviste: una mattina vento da terra, ti trovi in Croazia con due bracciate, un'altra volta dal Conero, oppure dal versante opposto, dal Monte san Bartolo, e tu nuoti (ho l'impressione, perché il giudice è ipocondriaco, che nuotare mi faccia perdere l'udito, oppure è la recitazione della Golino, oppure il ronron della lavatrice in questo appartamento che è una volta e mezza quello in cui vivo di solito) e in un quarto d'ora di furiose, ancorché scoordinate, bracciate, ti trovi sempre nello stesso punto - e quando poi rinuncio, mi abbandono, la corrente mi riporta indietro senza sforzo: tutte correnti trasversali, infide, di taglio, il minax Hadriaticus domato da questi filari di scogli interminati, da qui ad  Ancona, e oltre, fino ad Ascoli, a Termoli, finché ci saranno signore con adipe che immagineranno che camminando mezz'ora lentissimamente ma gagliardamente con l'acqua a mezza coscia smaltiranno tutti i figli, le amarezze, i pranzi dalla suocera, le ricorrenze che non sono state ricorse, le telefonate non telefonate. Altra cosa il Tirreno: scirocco, o maestrale, spesso, che ti riporta a casa ogni volta che ti allontani. Magari morto, ma ti riporta a casa. Qui invece mi sembra che potrei essere trascinato dove non voglio, come il patrono della mia città ben sapeva. Ma stasera nulla si muove. Vedo solo un cerchio che ricorda (il giudice è ipocondriaco) la mia retina accartocciata, o possibilmente accartocciata dopo i trecento colpi di laser ogni quarto d'ora e un quarto d'ora ogni settimana. Ho emesso giudizi equanimamente in tutti i campi: dalla letteratura all'abbigliamento al calcio, e dio sa quanto poco mi intenda di tutto: ma del resto ero in anticipo su quest'epoca di ciarlatori, e io, che mi sono sempre tacciato, vantato, d'inattualità, invece ero in anticipo, io scrivevo le lettere al direttore a tredici anni (una particolarmente riuscita al direttore del Guerin Sportivo, per lamentarmi del voto dato a Giannini in uno Svezia-Italia: mai inviata, comunque l'anno prima avevo chiamato la Gazzetta per spezzare una lancia a favore dei calciatori sul viale del tramonto), io giudicavo, implacabilmente, ero un grillino arcigno e malmostoso, e adesso, in un evo in cui tutti giudicano, e sono letti, cosa che a me non capitava, ora giudico tacitamente, o a cena, o al telefono, o sulle bozze. E mentre sono lì, il rombo dell'Adriatico, sommesso, sciabordante, penso che potrei aver sbagliato tutte le correzioni, e ora è tardi: e per questo, e altre cause che non c'entrano, domani potrei perdere il lavoro, e non tornare più sull'Adriatico a fare questa vita mista villaggio-vacanze/filologia, con la filologia che assomiglia sempre più a un'illusione. E allora, senza la paghetta, come farò con i miei lussi da compositore? le mie vacanze e i miei giudizi sommari costano: soprattutto questi ultimi.  Non che sia intollerante: sono un ottimo giudice, imparziale, non mi faccio corrompere. Ma ogni giudizio è un arbitrio, specie perché è volatile, un secondo dopo c'è il nulla, così come l'ombra dell'Ardizio insegue il mio telo da bagno fino a superarlo, diretta a sud. Domani mi sveglio alle sei per salvare il salvabile, ma che cosa bisogni salvare, non sappiamo. Non certo la messa di cui facciamo l'edizione - che non sarà fatta costringendoci alle dimissioni, al maelström. Sarà un peccato. È stato un privilegio immeritato quello di sfiorare, accarezzare, la dedica dell'ultimo peccato mortale del Grande compositore, pur coi guanti e contando i bifolii. Non ero da solo, avrei baciato quelle righe, invece le ho accarezzate rimettendo a riposare il manoscritto, ripetendo, non ho dubbi, i gesti fatti negli ultimi centocinquant'anni da affaristi e amatori, da parenti e legatari e restauratori. Poca scienza, un po' di cuore, tutto qui.